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Rinchiuso dentro il tombino

STEFANO BUSONERO IL PITTORE CHE NON VUOLE VENDERE I SUOI QUADRI

Storielle stravaganti di un eccentrico santostefanese

Il tombino (Prima decade di giugno 1954)

Ricordo abbastanza bene il periodo in cui avvenne questa indimenticabile avventura perché stava volgendo al termine l’anno scolastico 1954-55, durante il quale avevo come insegnante il maestro Cattania che mi ebbe come allievo in seconda e terza elementare. In seconda (anno scolastico 1953-54) fui promosso con dei miseri “sei”, mentre l’anno successivo rimasi bloccato in terza per la mia immaturità, così raggiunsi i ragazzini della mia età, dato che ero andato a scuola con un anno di anticipo. Prima dell’inizio dell’anno scolastico 1955-56, anno in cui dovevo ripetere la terza elementare, mia madre ottenne dalla direzione della scuola che io frequentassi la terza del maestro Guidi, che lei aveva preventivamente annoverato nella “rosa dei probabili”.

Ritornando all’avventura sopra menzionata, posso collocarla temporalmente, con assoluta sicurezza, nei primi dieci giorni di giugno, poiché la scuola stava per finire e il maestro ci aveva appena fatto sapere chi sarebbe stato promosso e chi no. Ricordo bene il suo atteggiamento rivolgendosi verso di me mentre muoveva il dito indice come il pendolo di un metronomo:

“Sefanino nino nino

ti promuovo col seino

tu sei ancora piccolino

più bambino di un bambino.”

Quello stesso pomeriggio io, Augusto il Gatto e Franco il Pancio (o Panciovilla) pianificammo di marinare la scuola il giorno seguente per occuparci della costruzione di una nuova piccola imbarcazione, che nel nostro gergo chiamavamo “chiattino”, realizzata con vari materiali occasionali. Si trattava di recuperare tavole, chiodi, manici di scopa, una sega, un martello, catrame ed altro ancora per il nostro piccolo cantiere situato “sotto la volta”. Questa era una casa diroccata presso il nostro vicolo a cui era rimasta ancora una piccola copertura a volta – attualmente rimasta tale e quale, fatta eccezione per l’erba e per gli alberi cresciuti in questi anni – posto ideale per qualsiasi nostra attività: dal gioco “tocca e ferma” alla costruzione di casette complete di fornetto a legna.

Il giorno seguente ci incontrammo, poco prima dell’ora di entrata a scuola, fuori casa mia e di Pancio, poiché erano situate nello stesso palazzo, invece Augusto abitava una cinquantina di metri più avanti. Confermammo la nostra decisione di non partecipare alle lezioni scolastiche di quella mattina e ci dividemmo i vari compiti: io avrei dovuto trovare un martello, una sega e dei chiodi, mentre i due cugini avrebbero pensato a tutte le altre cose, quindi ognuno di noi prese una direzione diversa.

Sapevo già dove avrei potuto reperire tutto il materiale occorrente: nella casa di mio nonno Michele. Lì mi diressi senza esitazione, convinto di trovare gli attrezzi che ci sarebbero serviti per la realizzazione della nostra piccola zattera. Fui ingenuo … più tardi si rivelò una fortuna. Credendo di ingannare mia nonna, quando mi domandò perché a pochissimi minuti dall’entrata a scuola mi trovassi da lei, le risposi che dopo aver preso l’attrezzatura necessaria al “cantierino”, mi sarei precipitato a scuola. Non mi credette, però mi lasciò fare.

Presi molti chiodi, un martello ed una grossissima sega da ebanista, con una lunga lama dentata – poco meno della mia statura d’allora – e con un tendi-sega a corda dalla parte opposta. Feci un’enorme fatica a portarla nella casetta da noi stessi costruita “sotto la volta”, con il rischio di essere visto da mia madre. Rimasi dentro la piccola costruzione, della superficie di più o meno tre metri quadrati, per circa un’ora, il tempo necessario alla mamma per prepararsi ed uscire per la spesa. Chiuso in quel piccolissimo locale, semibuio e senza possibilità di muovermi, il tempo sembrava non volesse scorrere mai.

Dopo un’oretta, quando ero ormai certo che mamma non mi avrebbe visto, mi avviai verso il tombino ove io e i miei compagni depositavamo spesso i nostri tesori. Il posto era a portata di mano, appena fuori casa, compreso nella lunga e ripida scalinata di cinquanta gradini, posizionato al centro del sesto o forse del quarto scalino. Il pesante coperchio di granito era già stato poco prima rimosso da noi – occorreva infatti la forza di più di un bambino per alzarlo – ed era messo in modo che non desse tanto nell’occhio e che permettesse allo stesso tempo di far penetrare al lato di esso un robusto ferro per farlo alzare del tutto. Con un po’ d’ingegno riuscii, facendo leva, a sollevare il pesante coperchio ma questo rimase in verticale ed in bilico al centro dell’apertura. Certo che non avrei avuto la forza necessaria per tirarlo su e per riporlo in posizione orizzontale a fianco dell’entrata, pensai comunque di entrarvi per sistemare, oltre i chiodi ed il martello, anche le palline, che erano state messe alla rinfusa nel tombino, poiché ormai era giunta a termine la stagione di quel gioco e non sarebbero più servite. Rendendomi perfettamente conto della minaccia di quel coperchio potenzialmente oscillante, cercai di tutelarmi mettendo la sega su metà apertura, così da impedirne l’accidentale chiusura totale, ed entrai in quel ridotto spazio, corrispondente all’incirca ad un metro cubo, nella pancia della scalinata, in un luogo ben asciutto e con le pareti levigate con uno strato di cemento. Se solo prima di entrare in quel maledetto buco avessi guardato verso la parte alta della scalinata avrei visto due bambini che stavano scendendo ed avrei atteso il loro passaggio, invece, improvvido, mi ci calai … e fu un guaio!

Quei due brutti ceffi, appena furono all’altezza del quinto scalino, presero la sega ed a gambe levate se la portarono via. Rimasi con tanto di naso e, dal momento che nulla potevo fare per impedire il furto ormai già consumato, arrabbiatissimo mi riabbassai per sistemare le varie cosucce.

Non era passato neanche un minuto da quel primo avvenimento, che sentii la voce imbestialita di un uomo con il somaro a seguito, che ripeteva sonoramente parole disarticolate. Probabilmente tale rabbia era causata dal coperchio del tombino che, posizionato in quella maniera, avrebbe potuto far cadere il suo animale.

Cosa fece quello scemo? Senza domandarsi perché il coperchio fosse rimasto aperto – e senza preventivamente ispezionare l’ingresso di quel pertugio – con un piede lo richiuse, mentre io non ebbi il tempo di gridare … vidi il buio e fu silenzio. In un attimo fui assalito dal panico. Gridai a squarciagola per più di uno, forse due minuti, senza interruzioni, tanto che le orecchie incominciarono a fischiarmi maledettamente, mentre l’aria incominciava a farsi pesante. Le tenebre erano pressoché totali, salvo quel debolissimo raggio di luce che penetrava da un piccolissimo spiraglio, più fiacco del fosforo contenuto nelle lancette della mia grossa cipolla che tenevo al polso, che segnava, ricordo ancora benissimo, le nove, trentacinque minuti e quindici secondi. Erano passati solo due minuti, eppure mi sembrava di essere prigioniero chissà da quanto tempo: quei due minuti erano diventati ore, due ore. Il coperchio rimase immobile nella stessa posizione e il contadino, alle cui orecchie evidentemente non arrivarono le mie grida disperate, continuò per la sua strada convinto di aver fatto cosa buona per coloro che avrebbero percorso quelle scale dopo di lui. Provai con tutte le energie che avevo a fare forza, verso l’alto, sul quel pesantissimo tappo: niente da fare. Neppure un accenno di movimento.

Avvertii prima lo sciogliersi dei miei intestini e poi l’aggressione di un improvviso e fortissimo mal di pancia, tanto che fui costretto a tirarmi giù pantaloncini e mutandine e a farla sul posto. Dal mio corpo fuoriuscì una brodaglia vischiosa e puzzolente che rese l’aria già abbastanza pesante, ancor più irrespirabile. La stessa brodaglia me la sentivo appiccicata alle superfici interne delle chiappe del sedere e, naturalmente, all’uscita dell’ano e tutta intorno ad esso. Dovevo togliermela assolutamente di dosso. Vidi un sacchetto di stoffa abbandonato in un angolo, non ricordo più da quanto tempo – una volta serviva a contenere le palline di vetro che avevo in comune con Franco il Pancio, poi, quando per le ridotte dimensioni non riuscì più a contenerle, lo sostituimmo con un vaso di vetro – lo afferrai e mi resi conto che era umidiccio e sporco.

“Cosa potrebbe essere più sporco della merda?” mi domandai, e con decisione mi ripulii tutte le parti interessate.

Dopo quella disgraziata operazione, soltanto per due o tre minuti, il tempo incominciò a scorrere regolarmente, e poi incominciai subito a sentire un prurito infernale che si stava diffondendo in tutto il mio sedere, ad iniziare sin dall’interno del condotto di uscita. Poi il tempo si rifermò e io … dovetti rimanere chiuso in quel tombino, a conti fatti, esattamente altre 144 ore!

Il lettore, anche quello un po’ più sprovveduto, si domanderà: “Ma cosa mi vuoi dare a bere? Cinque giorni in quel buco, senza mangiare né bere ed in quelle condizioni?”. Prego vivamente, invece, di continuare a leggere con fiducia i vari sviluppi perché tutto ciò che mi accingo a scrivere non è frutto di fantasia, ma è realtà vissuta e testimoniata.

La strada che da casa mia portava alla bottega di Ardita passava vicino alla porta dell’abitazione di mia nonna Alfea, che ogni giorno, alla stessa ora, mia madre andava a trovare. Qui venne a sapere del materiale da me sottratto al nonno e intuì che con tutta probabilità quel giorno non mi ero recato a scuola. Uscì in tutta fretta e si precipitò a scuola, facendosi ricevere dal maestro Cattania, il quale le confermò la mia assenza. Mia madre, donna alquanto sveglia e scaltra, immaginò che anche Augusto e Franco (i cui veri nomi erano Agostino e Francesco) non si erano presentati a scuola, quindi chiese ai rispettivi maestri, Riziello e Guidi, conferma di ciò e la ottenne. Ritornando a casa avvertì del fatto le sorelle Rina (madre di Pancio) ed Elia (madre del Gatto) e tutte e tre, ripetendo a squarciagola i nomi dei propri figli, si diressero in direzioni diverse per cercarli.

Le due sorelle trovarono subito Augusto e Franco, mentre non c’era nessuna traccia di Stefanino. Anche i miei due amichetti aiutarono nelle ricerche, che a differenza delle tre donne, effettuavano i loro spostamenti di corsa, percorrendo strade e luoghi assai comuni a noi bambini. Nonostante tutti i tentativi, Stefanino non si trovava.

Era quasi mezzogiorno quando le ricerche si fecero veramente intense e convulse. Mia madre aveva ormai deciso di ricorrere ai carabinieri denunciando la mia scomparsa, quando Augusto suggerì … … …

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