Le scarpe prodigiose

STEFANO BUSONERO IL PITTORE CHE NON VUOLE VENDERE I SUOI QUADRI

Storielle stravaganti di un eccentrico santostefanese

Storie stravaganti di Stefano Busonero

Le scarpe prodigiose (Anno intorno al 1958-60)

Non sono sicuro dell’anno, può darsi che non rientri nel periodo indicato, ma sono certo che l’episodio che sto per raccontare sia avvenuto nella stagione invernale. Ricordo chiaramente che, quando uscivo da scuola, subito dopo aver pranzato, ero solito cambiarmi gli indumenti e andare a giocare all’aperto con gli amici. Un giorno, nel cercare le mie scarpe preferite ebbi un’amara sorpresa perché, dopo un’intensa indagine, mi resi conto che mancavano all’appello. Questo scombussolò completamente tutti i miei piani per quel pomeriggio. Infuriato come una iena, domandai a mia madre dove le avesse riposte, e lei mi rispose che, dal momento che erano ormai logore, le aveva gettate nel secchio della spazzatura e quindi consegnate allo spazzino nella tarda mattinata. Nel sentire quelle parole rimasi senza fiato ed incominciai a piangere a dirotto. Inutili furono i tentativi di mia madre per farmi calmare.

Mi precipitai come un fulmine in uno dei luoghi in cui veniva raccolta parte della spazzatura paesana. Presso quei cumuli di immondizia si trovavano spesso dei bambini – ma talvolta anche qualcuno più grandicello – che, armati di piccoli bastoni per meglio scavare, andavano alla ricerca di qualcosa da recuperare. Di tanto in tanto, qualcuno trovava oggetti preziosi e spesso cose ancora utili, ma il più delle volte, la ragione principale di quelle ricerche era la semplice curiosità infantile.

Naturalmente le mamme e soprattutto la mia, mal tolleravano che i loro figli andassero a frugare in mezzo a quella puzzolente poltiglia. Io ne ero semplicemente schifato e recarmi presso quegli ammassi maleodoranti mi faceva mancare le forze. Pieno di vergogna però lo feci ed incominciai timidamente a girare attorno ad essi per cercare di intravedere le mie scarpe ormai perdute, quindi preso dalla tentazione di ispezionare più nel profondo, cercai di avvicinarmi, ma più mi approssimavo più mi accorgevo che l’aria fetida mi penetrava nei polmoni, ubriacandomi. Fu a quel punto che decisi di interrompere l’esplorazione e di fuggire a gambe levate.

Mi ritrovai sotto casa con gli occhi pieni di lacrime, con Augusto il Gatto accanto, intento a consolarmi. Solo lui sapeva il mio segreto, era l’unico a conoscenza dell’importanza di quelle scarpe per il mantenimento delle nostre prosperose riserve di palline, di cui eravamo entrambi possessori al 50%. Anche lui aveva le scarpe consumate come le mie ma, prevedendo che sua madre presto le avrebbe gettate nella pattumiera, le fece sparire con un piccolo stratagemma. L’espediente del Gatto inizialmente doveva essere quello di indurre la madre a scartare le scarpe senza che queste finissero nella spazzatura, ma le cose andarono diversamente perché quelle scarpe erano state comprate da poco tempo. Infatti Augusto, qualche settimana prima, era stato costretto a sostituire le scarpe vecchie completamente sfondate con un paio nuovo, e per creare due bei fori, necessari per la nostra comune attività, iniziò a raschiare la parte esterna della suola di cuoio con carta vetrata a grana grossa. Nel frattempo, ogni sera, riponeva le scarpe sotto il suo lettino per non dar modo a sua madre di prenderle in mano. Occorsero tre giorni al Gatto per svolgere solo la prima parte del suo strambo piano, quello della foratura, mancava quindi la fase più difficile, quella cioè di salvaguardare il destino del prezioso paio di calzature. Non aveva però calcolato che Elia, sua madre, ogni mattina gliele spazzolava prima del suo risveglio, riponendole poi nello stesso punto. Era perciò inevitabile che vedesse l’anomalo aumento dei fori in quelle scarpe quasi nuove. Tutto poteva immaginare meno che quei buchi in forte progressione fossero opera del figlio, quindi le portò ad Elio Murzi, il commerciante che gliele aveva vendute, per fargli notare l’insolito difetto. Questi, senza sentire ragioni, le rispose semplicemente che dalla sua bottega usciva soltanto roba di alta qualità e che probabilmente suo figlio aveva corso su terreni impervi.

Elia non gettò quelle scarpe nella pattumiera, ma le portò dal calzolaio per la risolatura, il quale più meravigliato di lei, si domandava come fossero giunte a quel livello di degrado. Il piccolissimo laboratorio di Elio il calzolaio – un nome veramente protagonista in questa storia – padre del nostro amico Mauro, si trovava proprio sotto la casa di Augusto e quindi era assai facile per quest’ultimo ispezionare da fuori quella stanzetta di pochi metri quadrati. Una volta individuate le sue scarpe, non gli restò che attendere il momento opportuno per farle sparire. Siccome Elio non lasciava mai incustodita la sua bottega, decidemmo di creare noi l’occasione propizia. Non fu facile. Simulai per gioco una scazzottata con l’inconsapevole Pancio nei pressi di quel laboratorio, con lo scopo di far uscire fuori il calzolaio e dare modo ad Augusto di prelevare le sue preziose calzature. Pancio non era a conoscenza del nostro piano e credette che si trattasse del solito gioco tra ragazzi ma, quando iniziammo a lottare, a differenza delle altre volte, io incominciai a gridare e a lanciare improperi, proprio con l’intento di allarmare l’intero vicolo. Intervennero diverse persone a dividerci e fra queste anche l’uomo che volevamo fuori dal suo abituale luogo di lavoro, ma quando capirono che non facevamo volare veri cazzotti ci lasciarono stare, non senza mugugni. Nel frattempo il Gatto, con passo felpato, era entrato nella bottega e si era rimpossessato delle sue scarpe bucate, che a partire da quel momento, tenne lontano da casa sua e da sua madre. Quello che successe tra Elia ed Elio, in seguito a quella strana sparizione, non sono mai riuscito a saperlo, comunque conoscendo Augusto – l’Augusto bambino – sono certo che la verità non sia mai venuta fuori.

Ritornando alle mie scarpe, poiché ero parecchio intenzionato a rientrarne in possesso, il giorno dopo marinai la scuola per parlare con Valzesio, l’operatore ecologico del nostro vicolo. Dopo avergli spiegato il fatto – condendo il tutto con qualche bugia di troppo – egli mi indicò il punto esatto in cui scaricava la sua raccolta. Fu facile trovare il posto e ancor più facile ed agevole ritrovare il mio apprezzato strumento di lavoro. Quel mucchio di spazzatura indicatomi, per fortuna, era piuttosto piccolo, poco maleodorante e abbastanza asciutto, tanto da non permettere alcun cambiamento di stato alle mie scarpe che, nonostante tutto, apparivano prive di umidità e non contaminate da liquami.

Mi guardai bene dal riportarle a casa ed ogni sera le riponevo nello stesso tombino in cui le metteva il Gatto.

La nostra scorta di palline aumentava sempre più. Ne avevamo a bizzeffe ed eravamo invidiati dagli amici che molto spesso ci domandavano come facessimo ad averne così tante, dal momento che raramente ci vedevano giocare e vincere. Era un segreto che non potevamo rivelare perché avremmo rischiato di prenderle tante e di santa ragione, cosa che purtroppo avvenne – solo per me – a distanza di qualche giorno. Quella volta, nella prima parte del pomeriggio, come al solito, Augusto ed io ci recammo alla marina antistante il “Bar Centrale”, dove numerose schiere di bambini già stavano giocando a palline. Tale posto era ideale per quel tipo di gioco, sia per l’ampiezza che per la ricchezza di rena, con la quale si potevano creare piste a volontà. C’erano anche spazi privi di sabbia dove, sempre con le biglie, si facevano altri tipi di giochi, quelli cioè che preferivamo noi … ma solo da spettatori. Sì … spettatori ma anche veri protagonisti su tutto il campo.

Ci divertivamo a percorrere in tutte le direzioni – non senza creare disagi ai giocatori – la spaziosissima area di gioco. Dopo il nostro passaggio diverse palline sparivano dai loro punti di ubicazione ed andavano a finire – tramite i buchi nelle suole – dentro le nostre scarpe. Anche quel giorno, come al solito, calcolavamo di portare a casa una trentina di palline, ma qualcosa andò storto: feci l’errore di imbattermi e disturbare il gioco dei due fratelli “Robusto” (soprannome comunemente valido per entrambi, i cui nomi sono Roberto e Franco) e di fregare loro, in un sol colpo, tre palline. Franco, essendo un tipo molto sveglio, non appena si accorse del furto, mi additò e, gridando a squarciagola che aveva scoperto il ladro, attirò l’attenzione di tutti i ragazzini su di me. Nel punto in cui mi trovavo non potevo scappare, perciò aspettai gli eventi: consapevole che ognuno di loro aveva una valida ragione per saltarmi addosso. Mi arrivò un pugno diretto sul naso che subito iniziò a sanguinare, un altro invece, colpì con violenza un occhio. In quel momento, proprio mentre stavo ormai pensando di morire, uno dei ragazzi più grandi riuscì ad isolarmi dal gruppo inferocito e a proteggermi: si chiamava Elio.

«Adesso basta!» gridò, e rivolgendosi con forte rabbia verso di me, mi suggerì di riportare alla marina tutte le palline rubate nei giorni precedenti e riconsegnarle ai rispettivi proprietari, altrimenti sarebbero stati guai. Sentivo ancora forti schiamazzi e quando riaprii gli occhi, o meglio l’occhio che era ancora in grado di vedere, notai con meraviglia che Augusto si stava scazzottando con due ragazzi. Nessuno dei numerosi gruppi intervenne, anzi questi si sciolsero e formarono un unico cerchio attorno ai tre lottatori, a me e al mio salvatore Elio. Il Gatto intanto, studiava le mosse dei due avversari e si muoveva con sorprendente agilità, proprio come il felino di cui portava il soprannome, e sebbene fosse da solo, riuscì a pestarli sonoramente e a metterli in fuga. Soltanto più tardi venni a sapere che quei due erano i veri responsabili del mio pestaggio e che la scazzottata di Augusto non era collegata alla sparizione delle palline, ma nasceva dal desiderio di difendermi da chi mi aveva brutalmente colpito.

Vista la difficile situazione, mi diressi subito verso il nascondiglio per prendere il maltolto e riportarlo ai legittimi possessori. Augusto mi seguì ma, a buona ragione, si guardò bene dal camminarmi vicino per non essere scoperto come mio complice. Appena arrivammo nel luogo in cui nascondevamo il nostro “tesoro”, prendemmo uno dei due vasi colmi di palline e ci dirigemmo verso la marina. Mi aspettavo un finale molto umiliante invece la giornata si concluse con un grandissimo ed inaspettato divertimento.

Poco prima di raggiungere i ragazzi che giocavano a palline, Augusto si separò da me per recitare la parte del derubato e mi lasciò solo con il vaso di biglie, che posi sul muretto che separava la spiaggia dalla piazza principale.

Il naso aveva ormai smesso di sanguinare e il dolore all’occhio era completamente scomparso, ma il cerchio nero che lo circondava era in netta progressione, minuto dopo minuto. Non mi interessava, anzi, mi sentivo come un re.

Dal mio trono – ero seduto sul muretto – dominavo la situazione sulla spiaggia: ero in grado, come un direttore d’orchestra, di comandare ed armonizzare i copiosi gruppi di ragazzi che si trovavano sotto di me, dirigendoli dove io volevo. Mi guardavano come tanti cani affamati quando mi vedevano inserire la mano dentro il vaso e prendere una manciata di palline che gettavo in aria in ogni direzione. Ad ogni lancio osservavo i bambini dirigersi a folle corsa nel punto di caduta, dandosi spintoni per raggiungere per primi la “manna dal cielo”. Un’idea splendida mi balenò per la mente e la misi subito in atto: prima di ogni lancio guardavo dove fosse posizionato il Gatto e proprio in quel punto esatto lanciavo le palline. Franco, il più scaltro dei due fratelli Robusto – quello che per primo scoprì l’inganno – se ne accorse immediatamente e quindi iniziò a seguire preventivamente ogni passo di Augusto per raccogliere con facilità un maggior numero di biglie. Mi sentivo importante. Ma ciò che considerai la ciliegina sulla torta fu l’entrata in gioco di alcuni babbi che si unirono ai loro figli … … …

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